martedì, settembre 05, 2006

“Children of men” è un film-trauma

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Venezia. Domenica scorsa, al festival di Venezia, è stato proiettato “Children of men”, film del regista messicano Alfonso Cuarón, con il formidabile Clive Owen e il grandissimo Michael Caine. Il film è stato immediatamente, e pigramente, inserito nella categoria “fantascienza”.

Invece “Children of men”, dall’omonimo romanzo di P.D.James (edito in Italia da Mondadori), parla di un mondo senza bambini, di immigrazione e crisi della civiltà, con le sue guerre intermittenti, in un 2027 che rinvia senza scampo al 2006.

Altro che fantascienza. Il film risponde a un’urgenza di parlare di temi che ci interrogano oggi con la data di domani. Nel 2027 di Cuarón nessuna donna riesce a rimanere incinta, e da ben diciotto anni. Nel mondo non si partorisce più, l’umanità piange davanti ai teleschermi la morte dell’idolatrato “uomo più giovane del mondo”, il teenager “baby Diego Ricardo”.

Non ci viene detto, nel film, perché le donne hanno perso la capacità di dare la vita. Lo spettatore, lasciato solo, immagina le possibili cause dell’infertilità: stress, epidemie, cure invasive, alimentazione iperchimica, mutazioni genetiche, cultura. Stranamente, ma forse non casualmente, quella situazione non pare così irreale. Si avverte tutta la tristezza di un mondo che si è autoconsumato. Né pare irreale il discorso di un’ostetrica che ricorda con dolore composto come tutto è cominciato, con una serie di inspiegabili aborti spontanei nell’anno 2009.

E forse l’idea di un’umanità senza bambini non sembra fantascientifica perché il discorso sul fare o non fare figli, sul come e quando farli, dubbi che si accompagnano a quelli sulla vita in sé e sui limiti della scienza, si pongono comunque, oggi, qualunque sia la posizione su fecondazione assistita, cellule staminali, clonazione terapeutica e aborto.

Decidi quello che vuoi, sembra dire il film, di fermarti o di procedere lungo questa strada, purché tu ti sia posto il problema di dove stai andando.

Ubris, immigrazione e kit per eutanasia
Non c’è un solo modo per parlare di quello che siamo oggi rispetto alla vita e alla sua fine presunta, alla scienza e all’etica, al mito del multiculturalismo e al mondo insicuro che, dall’11 settembre 2001, nega e rivive la paura a ogni scoppio di bomba nelle città-cuccia diventate terreno di morte. Il film di Cuarón è riuscito a parlarne in un modo che sconcerta, al di sopra della battaglia al dettaglio sui singoli temi: ricerca scientifica, sacralità della vita, immigrazione, diritti umani e guerra globale. “Children of men” si limita infatti a inventare e descrivere un mondo che soltanto per un escamotage stilistico è datato 2027, e lo fa con precisione e misura, senza morali e senza buonismi, lasciando spazio al tragico inteso in senso classico, il dolore dell’uomo di fronte alle conseguenze della sua ubris, la “tracotanza” che lo porta al superamento dei propri limiti. Non c’è Dio e non c’è la scienza, sullo schermo. Fede e scienza restano un passo indietro rispetto a quell’umanità sola con le sue domande, disillusa al punto da non aspettarsi più niente, impegnata in guerre intermittenti per parole d’ordine confuse. Il tragico, l’indecidibile.

Le domande eluse (almeno nella realtà traslata di Cuarón) tornano all’umanità con il loro carico di dolore consapevole, tanto che i cartelloni pubblicitari sparano ovunque il nome del “miracoloso” medicinale “Quietus”, kit per eutanasia fai da te: decidi tu quando e come abbandonare quel mondo di vecchi, quei gruppuscoli di resistenti a non si sa più che cosa, tanto si sono confusi nella mente umana gli obiettivi, i doveri, i diritti e i desideri, l’ideologia e l’altruismo, e tanto si è abbassata la creatività e la voglia di vivere.

Chissà se l’uomo si è chiesto dove stesse andando, a un certo punto della sua corsa verso il 2027. Certo sembra essersi appena risvegliato da un periodo di incoscienza iperattiva. Il macabro “Quietus”, legalizzato, a differenza delle droghe leggere, diventa la via più veloce per abbandonare quella Londra sventrata dalle bombe, dove nessuno capisce davvero contro chi combatte e nessuno se lo è chiesto (perché non voleva vedere nemici attorno a sé? perché era più comodo seguire il flusso?) e dove un disco sull’autobus ripete “non denunciare un immigrato è reato”. Ma non c’è spazio per ritornelli ipocriti alla “noi siamo i bianchi cattivi, viva il terzo mondo, isola felice senza consumismo”.

Vediamo i profughi incarcerati, ma anche la violenza abissale di una manifestazione di fondamentalisti, con mitra puntato al grido di “Allah u akbar”. Quando compare l’unica donna incinta, la prima dopo 18 anni, l’umanità non sa se sentirsi sollevata o minacciata, tanto che la ragazza deve scappare alla ricerca della nave “Domani”, che emerge dalla nebbia del mare.

“Questo film parla delle civiltà che stiamo distruggendo ogni giorno nei valori e nella vita collettiva”, ha detto Cuarón, sottolineando che la sua, appunto, non è fantascienza ma “visione realistica del presente”. Nessuno lo vuole un presente così, e quindi ben venga, finalmente, un film che ci costringe a pensarlo.

(05/09/2006)