lunedì, agosto 21, 2006

selezione genetica e manipolazione embrioni







Intervista a Eugenia Roccella (23 aprile 2005)
La metamorfosi «maschile» delle femministe

di Andrea A.Galli

In tempi di referendum sulla legge 40 è frequente sentire una onorevole Barbara Pollastrini, Ds, sostenere che «il dovere del legislatore, soprattutto su materie come la fecondazione assistita, sarebbe quello di alimentare il confronto e il dialogo». O un esponente del partito radicale raccomandare l’«ascolto della voce delle donne». Appelli che condividiamo e a cui cerchiamo di contribuire, dando la parola a quelle figure storiche del mondo femminista che sono rappresentanti d’autorità della cosiddetta "voce delle donne". Come Eugenia Roccella, figlia di Franco – tra i fondatori del Partito radicale –, negli anni ’70 leader del Movimento di liberazione della donna, a lungo militante radicale, e oggi giornalista.

L’Italia è uno dei Paesi con il più basso tasso di natalità, il nesso con la maternità è espunto dall’icona della donna di oggi, e chi ha legittimato, anche culturalmente, questa situazione a un tratto sembra ossessionato dalla necessità di mettere al mondo dei figli. Cosa ne pensa?

«Quello che si sente da parte del fronte referendario sul diritto alla maternità, o alla consanguineità con il proprio figlio, quest’idea per cui la procreazione assistita sarebbe un modo per andare incontro a un desiderio naturale della donna, fa parte di un armamentario esclusivamente propagandistico. È un’accentuazione retorica per giustificare la prassi, appunto, della fecondazione assistita. Da molto tempo non si valorizza in alcun modo la maternità e non si fanno politiche per aiutarla. Di più: il modello emancipazionista per la donna che ancora viene difeso è un modello prettamente maschile, di libertà dal corpo e quindi dalla maternità. È una libertà senza corporeità e senza problemi di cura, di assistenza, di riproduzione ecc. Dal che è facile capire come la retorica sul diritto di avere un figlio sia davvero strumentale. Ed è ridicolo invocare la "naturalità" del desiderio materno quando si intraprende un cammino che va in senso diametralmente opposto, verso l’assoluta "non-naturalità"».

Si attacca una norma della legge 40 come «pericolosa per la salute della donna», e si difende a spada tratta una via che è in sé una grande incognita proprio per la salute della donna. Non le sembra strano?

«Guardi, se uno fosse davvero preoccupato per la salute della donna dovrebbe vietare le stimolazioni ormonali tout court. In Italia, poiché il dibattito femminista in materia non viene alla luce – per timore di nuocere alla sinistra, o per paura di farsi strumentalizzare – sembra che tutte le donne siano schierate a favore della procreazione assistita. Il che non è vero. In America, per farle un esempio, c’è a questo riguardo una discussione pubblica, con una vasta ala del mondo femminista contraria alla procreazione assistita proprio perché considerata una pericolosa manipolazione del corpo della donna. Le autrici del famoso libro Noi e il nostro corpo – che viene ristampato continuamente in edizione aggiornata – del gruppo femminista di Boston, hanno avanzato molte riserve sulla procreazione assistita proprio sul piano della salute. Tutti sanno, poi, che questa pratica lascia invariato il problema dell’infertilità, che è il vero nodo. La procreazione assistita non è una terapia. È solo una manipolazione che tende a denaturalizzare la nascita. Il movimento di liberazione della donna ha da sempre tentato di percorrere il cammino inverso: demedicalizzare il più possibile la nascita. Queste cose, però, in Italia non vengono allo scoperto».

Una parola ad effetto che si riaffaccia, nelle discussioni sulla procreazione assistita, è quella della "autodeterminazione" della donna. A lei che ha partecipato alle storiche battaglie femministe degli anni ’70 che effetto fa sentirla in questo contesto?

«Ci sono due discorsi da fare sull’autodeterminazione e la libertà di scelta. Da una parte è bene sapere che lo slogan delle libertà di scelta, il "free choice", è stato messo pesantemente in discussione dalle femministe proprio nella sua terra d’origine, gli Stati Uniti – così com’è stato messo in discussione da alcuni gruppi la separazione tra sessualità e procreazione – mentre qui continua a prevalere il mito della liberazione femminile. Tutto va rimesso in discussione man mano che i tempi cambiano. A nulla servono totem che non si misurano con i nuovi problemi del tempo. La cosiddetta libertà di scelta è stata messa in discussione perché si è cominciato a capire che da libertà di scelta di "quando e se" essere madri, sta diventando sempre più una libertà di scelta sul figlio: la libertà di "chi" essere madri, attraverso la selezione genetica»sul figlio.

Selezione genetica su cui si nota una certa freddezza da parte delle femministe nostrane.

«Un silenzio, insisto, che riguarda soprattutto l’Italia. Nemmeno l’Europa, dove c’è già un’associazione internazionale nata in Olanda, il Finrrage, che si occupa di questo. Nel nostro Paese questi temi sono sottotono perché il dibattito è ideologizzato e collocato all’interno degli schieramenti politici, oppure della contrapposizione tra laici e cattolici. Altrove la riflessione sull’eugenetica è molto avanzata. Penso sempre agli Stati Uniti, dove si comincia a mettere in luce il fatto che i passaggi da "l’utero è mio" e "l’embrione è mio" fino a "il bambino è mio", hanno cambiato radicalmente il senso di antichi slogan. E che la cosiddetta "libertà di scelta" della donna ha invaso territori che non hanno più nulla a che fare con la libertà femminile, ma riguardano la scelta dell’umano».

Negli anni della dicussione sull’aborto la questione era quella di dirimere il dramma di due libertà che si intrecciavano. Non le pare che ora si sia passati ad una fase ulteriore: negare scientificamente che uno dei due soggetti coinvolti sia un essere umano?

«Beh, questo in fondo è sempre stato un po’ fatto. Però è dipeso più dalla polarizzazione dello scontro tra laici a cattolici, penso, che dal movimento femminista in sé. Le femministe, soprattutto quelle storiche, sono sempre state molto caute. Si diceva infatti che l’aborto non è una libertà: è una battaglia per dei fini di libertà. Ma una battaglia che inevitabilmente ferisce».

Guardando alla sua esperienza, come giudica la posizione dei radicali sulla procreazione assistita e la ricerca sugli embrioni umani?

«Io sono molto affezionata ai radicali e voglio molto bene a Marco [Pannella n.d.r.]. Però non sono più d’accordo con loro su nulla, o per lo meno su nulla di quello che sostengono in questo campo. I radicali sono degli individualisti. E come tali mi stupisce che non si rendano conto che le battaglie che stanno conducendo vanno verso la distruzione dell’individuo. Per esempio attraverso l’eugenetica, che loro pensano non venga introdotta se passassero i referendum, mentre non è vero. L’eugenetica è un processo che non si può fermare, una volta entrata nel mercato delle opzioni. Quante donne si prenderanno la responsabilità di mettere al mondo un figlio malato, se sarà possibile vagliarne a livello embrionale la "qualità"? Se diagnosi e selezione embrionale entreranno nel mercato delle opzioni, tutte le donne cominceranno a chiederle. E il tipo di richieste si allargherà tanto quanto si allargheranno le possibilità scientifiche. Forse questa legge non è un gran che, però è certamente una porta chiusa di fronte all’eugenetica. E io voglio una porta chiusa rispetto alla possibilità che si apra anche un solo spiraglio. I radicali sottovalutano questo rischio. Accentuano il discorso della libertà di scelta e sottovalutano la possibilità che essa diventi scelta "di chi" essere madri o padri. Non rendendosi conto, poi, che tutto ciò consegna l’individuo, silenziosamente, nelle mani di nuovi poteri: medici, scientifici o tecnocratici».

Non le pare curioso che chi, come i radicali, ha condotto campagne durissime sui danni per la salute pubblica di centrali nucleari, pesticidi e quant’altro, oggi mostri la più completa indifferenza ai rischi di pratiche come quelle di cui stiamo parlando?

«Questo vale anche per i Verdi, ovviamente. Solo che per loro mi pare sia un atteggiamento strumentale. Per i radicali si tratta del fatto che non si rendono conto delle ricadute anti-individuali del loro individualismo, come del fatto che da un’idea di libertà senza limiti si ottiene un’illibertà assoluta. Si ottiene il totalitarismo genetico o il totalitarismo tecnocratico».

Qual è il motivo di questo atteggiamento?

«Il non volersi discostare da un filone tradizionale e il non volersi misurare con i veri scenari della post-modernità, direi. Ci si comporta un po’ come i famosi giapponesi che continuavano a combattere dopo la fine della guerra. Se le situazioni cambiano, anche gli strumenti di giudizio e di intervento, devono cambiare. I radicali in questo risentono di una specie di forza di inerzia, per cui seguono una strada predefinita senza un particolare sforzo di riflessione. Questo è del resto un problema della cultura liberale in generale. Il pensiero liberale ha la necessità di aggiornarsi, ma di fronte agli scenari contemporanei questo processo può risultare complicato. Da qui la recente apertura di diversi suoi esponenti agli insegnamenti della Chiesa. Che su certe questioni rende evidente a molti, oggi, la sua saggezza»

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Stereotipi (24 maggio 2005)
Con Sabrina Ferilli al mercato dei desideri

di Eugenia Roccella

Bella, autonoma, anticonformista quel tanto che basta: l’immagine maliziosa di Sabrina Ferilli che invita a votare sì al referendum sembra proporre il modello di una donna informata e attiva, che sollecita la solidarietà e la mobilitazione delle altre contro una legge che ritiene ingiusta. I pensieri corrono ad altri famosi esempi di attrici disposte a spendere la propria popolarità sul fronte dell’impegno civile: Emanuelle Béart per gli immigrati senza permesso di soggiorno, o magari Jane Fonda al tempo della guerra del Vietnam.
Ma se ricordiamo le immagini di Jane Fonda, quando, negli anni Settanta, inalberava cartelli pacifisti, o quelle più recenti della Béart, struccata, in jeans e maglione, che manifesta accanto ai sans papier, scopriamo che non somigliano affatto a queste di Sabrina Ferilli, levigata e ammiccante più che mai.

Infatti, non di impegno si tratta, ma di marketing studiato a tavolino, di messaggi promozionali che cercano di associare al voto referendario un’immagine femminile dotata di un appeal facilmente leggibile. Il manifesto della Ferilli vuole suggerire che le donne schierate per il sì sono libere, cioè senza stupidi pregiudizi (vedi le labbra dischiuse), moderne (vedi la coda di cavallo sbarazzina), consce dei loro diritti (vedi il piglio deciso con cui brandisce la matita), fascinose.

L’immagine della donna che si astiene, di conseguenza, si costruisce proiettandosi nella fantasia in negativo, come un’anti-Ferilli. Quindi una poveretta priva di doti seduttive, sciatta, antiquata, senza zigomi al collagene o labbra al silicone.
L’allusione alla chirurgia estetica non è una malignità frivola e gratuita, perché l’affidamento femminile alla scienza medica, e la sudditanza a canoni astrattamente stabiliti, sono parte integrante del messaggio pubblicitario che passa, consapevolmente o no, attraverso la Ferilli. La procreazione medicalmente assistita si apparenta con la bellezza e la giovinezza "chirurgicamente assistite", all’interno di una tendenza globale all’artificializzazione del corpo, in particolare di quello femminile. Invece di partire dall’accettazione di sé, dal riconoscimento sereno dei propri umani limiti e della preziosa diversità individuale, le donne vengono spinte verso un’idea omologata di felicità, attraverso la subordinazione a desideri precostituiti, uguali per tutti, spacciati come diritti, ma spesso impossibili da raggiungere.

Il mercato dei desideri include anche i figli, proposti come un’offerta tra le altre, tra cui liberamente scegliere. L’idea che si cerca di diffondere, circa la procreazione assistita, è che la medicina risolverebbe rapidamente ogni problema, se solo avesse carta bianca. Non si parla mai dei rischi per la salute della donna e del nascituro, delle bassissime percentuali di riuscita, che diventano ancora più basse oltre una certa soglia di età; non si parla della fatica di sottoporsi a trattamenti ormonali pesanti, delle inevitabili frustrazioni a cui si va incontro.

Più che propaganda per l’abrogazione di una parte della legge 40, sembra propaganda al metodo in sé, e soprattutto all’assoluta libertà dei medici, che dovrebbe coincidere con la libertà della donna. La fecondazione in vitro deve apparire come l’appagamento del desiderio, un paradiso a portata di mano, anzi di penna: basta firmare.

Va bene, è solo pubblicità. Ma perché quando si esercitano sulle donne gli esperti di marketing producono il peggio di cui sono capaci, senza una briciola di rispetto per l’intelligenza del fruitore? E quale associazione di consumatori ci difenderà dalla propaganda referendaria ingannevole, incompleta, in malafede? Almeno, come nelle pubblicità dei medicinali, ci dovrebbe essere l’obbligo delle avvertenze finali, quelle che la voce suadente dello speaker recita il più velocemente possibile: attenzione, leggere attentamente le istruzioni per l’uso, ci possono essere controindicazioni; quella matita va adoperata con cautela.

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Sbarrate le semplificazioni. Una campagna di sorprese

12 giugno 2005

di Eugenia Roccella



Quando la campagna referendaria è iniziata, i sostenitori del sì erano molto sicuri di sé e dei propri argomenti. La divisione delle parti sembrava chiara: di qua il progresso, la scienza, la salute, i diritti delle donne; di là l'oscurantismo, l'antifemminismo, e i soliti cattolici.

Inoltre, bisognava mettere in conto i due grandi quotidiani nazionali schierati a favore, la partecipazione militante di personaggi dello spettacolo, e alcune insperate e significative defezioni nel campo di chi la legge l'aveva votata: Martino, Prestigiacomo, addirittura Fini.

La stessa indicazione astensionista dei vescovi era apparsa come una scelta dimessa, poco aggressiva sul piano intellettuale e politico. Insomma, ci si aspettava, e lo si leggeva nell'arroganza esibita dai referendari, che il confronto con l'avversario si sarebbe risolto in una passeggiata.

Così non è stato. Questa volta non è stato lasciato solo ai cattolici l'onere e l'onore di difendere la vita; Norberto Bobbio sarebbe soddisfatto. Il fronte laico si è spaccato, come non era accaduto altre volte, e il dibattito ha infiammato gli animi e riempito le pagine dei quotidiani.

L'opera di controinformazione svolta da giornali come “il Foglio” e “Avvenire” ha incrinato la superficie brillante della "libera scelta", della "salute delle donne", dei "diritti della ricerca", e delle "speranze di guarigione dei malati". Da queste crepe sono filtrati concetti pericolosi, materiale incandescente: la prospettiva concreta dell'eugenetica, una concezione della ricerca che non tollera limitazioni etiche, l'illusorietà delle promesse di terapie a portata di mano, l'esistenza di un mercato globale del corpo e della vita.

L'approfondimento della discussione ha fatto franare la semplificazione propagandistica più insinuante, quella che la legge 40 fosse "contro le donne". Considerando i singoli punti della legge, si è visto che molti paletti sono lì proprio a tutela della salute delle donne, per limitare i rischi di un affidamento cieco alle tecnologie riproduttive, contro la speculazione sul corpo femminile e l'uso spregiudicato, da parte di alcuni medici, del desiderio di maternità.

I referendari sono stati costretti a calibrare meglio le argomentazioni, a dare meno per scontati gli assiomi iniziali, a contendere palmo a palmo all'avversario quello che sembrava il terreno privilegiato della campagna, la libertà femminile.

Soprattutto, sono entrati in gioco gli scenari futuri della nascita e della maternità. Per esempio: l'infertilità nel mondo occidentale continua ad aumentare, e si trasmette da una generazione all'altra per cause pochissimo indagate, senza che si cerchino veri rimedi. La procreazione assistita, che peraltro continua ad avere un indice bassissimo di successo, non è una terapia dell'infertilità. È possibile proporre, come unica soluzione al problema, la provetta? La fecondazione in vitro può davvero essere la risposta privilegiata che la ricerca scientifica e la medicina danno a chi ha difficoltà ad avere figli? E ancora: nazioni come la Svezia e l'Inghilterra, in cui la fecondazione eterologa è stata sperimentata per un lasso di tempo sufficiente a valutarne le ricadute sociali, stanno tornando sui propri passi, imponendo divieti e limiti. Perché?

Forse andrebbe detto con più onestà che destrutturare, anche simbolicamente, la genitorialità e la nascita non è facile come sembra. Che le resistenze sono profonde, e affondano nel buio remoto della storia, nel corpo e nel cuore degli esseri umani.

Non è tanto la mancanza di un padre biologico conosciuto, credo, a provocare terremoti emotivi, quanto il fantasma dell'assenza di radici carnali, l'angoscia di origini tecnologicamente intercambiabili. È l'appiattimento sul biologismo, la reificazione dell'umano, a inquietare; quell'immagine di un incontro in vitro che ricorda "l'incontro fortuito sopra un tavolo d'autopsia, d'una macchina da cucire e d'un ombrello" di Lautréamont.

Scivolando, in corsa, sul sogno scientista di un'umanità asetticamente felice, i sostenitori del sì sono stati costretti a frenare, oppure sono inciampati su ostacoli imprevisti. È stato questo, prima di tutto, il vero successo del dibattito sul referendum.

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Liberalismo, cristianesimo e condizione delle donne

Eugenia Roccella
Norcia, 15-16 ottobre 2005

Non avevo previsto di intervenire, ma la relazione di Giovanni Orsina mi ha sollecitato a immettere nel dibattito, anche soltanto come spunto di riflessione, una questione che mi sta a cuore. Orsina ha segnalato una lacuna del pensiero liberale, il cui soggetto privilegiato è l’individuo nella sua piena maturità, in grado di agire e decidere per se stesso. Ma come considerare l’individuo che non sia ancora in questa fase? La condizione prenatale finisce col situarsi in una zona grigia, tra un vuoto di riflessione e un groviglio di diritti che confliggono l’uno con l’altro (come nel caso dell’aborto o della procreazione assistita), e che i liberali tendono a risolvere con la prevalenza dell’individuo maturo sul non nato, in virtù della sua capacità di esprimere una scelta.

L’incertezza e il vuoto di pensiero che circondano la nascita derivano però da un’altra insufficienza del liberalismo, forse più grave: l’esclusione del femminile. L’idea stessa di individuo è costruita sul corpo maschile, incapace di generare. Etimologicamente, “individuo” vuol dire “che non si divide”, e indica l’elemento di soggettività irriducibile dell’umano. Ma la donna, con il parto, letteralmente si divide; e prima, durante il periodo della gestazione, è due in uno, soggetto che contiene un altro soggetto, di cui tutela l’esistenza e lo sviluppo. Questa compresenza di soggetti e di corpi è profondamente estranea al pensiero liberale, in un certo senso “impensabile” con le sue categorie.

La modernità liberale nasce riaffermando la separazione storica tra pubblico e privato, identificati come luoghi di pertinenza della differenza sessuale. Da una parte c’è la casa, spazio dell’accudimento dei corpi, della riproduzione, degli affetti, di tutto ciò che oggi si definisce come etica della cura; dall’altra c’è la piazza, spazio della parola pubblica, dell’esercizio dei diritti. L’esistenza dell’uomo pubblico, definito a partire da una razionalità disincarnata, presuppone una sfera privata dove possano esprimersi i bisogni più intimi, le dipendenze del cuore e del corpo, e questa divisione coincide con l’apartheid sessuale: di qua le donne, di là gli uomini. L’idea di cittadinanza ha escluso le donne fin dall’inizio, e questo spiega la difficoltà delle lotte delle suffragiste e i tempi lunghi con cui le donne hanno ottenuto il sospirato diritto di voto.

La partecipazione degli uomini alla vita pubblica si è materialmente fondata sull’esistenza di una vita a latere, in ombra, in cui trovava rifugio tutto ciò che veniva espulso dalla definizione dei diritti individuali. L’esclusione femminile non è un incidente storico, ma un peccato d’origine: inchiodare le donne al ruolo domestico negando loro l’accesso al pubblico ha consentito al pensiero politico moderno di librarsi nel regno dell’astrazione senza sporcarsi le mani.

Questo è uno dei motivi fondamentali della lunga alleanza, durata almeno fino a tutti gli anni Cinquanta del secolo appena concluso, tra le donne e la Chiesa cattolica. Il legame tra le donne e la Chiesa è stato spesso analizzato come una forma di arretratezza femminile, di incultura, di resistenza alla modernità laica, e di estraneità al processo di secolarizzazione. Bisognerebbe invece ricordare che la Chiesa ha accolto e valorizzato il femminile, attribuendo significato e importanza all’etica della cura, offrendo centralità alla maternità, ai saperi femminili tradizionali, ai valori spirituali e morali di cui le donne si sentivano custodi e portatrici. Tutto questo mentre la modernità liberale e democratica le marginalizzava e soprattutto non riusciva a incorporare la differenza di genere all’interno della cittadinanza.

Su quanto la Chiesa abbia accompagnato il cammino delle donne, e quanto abbia influito, sia in termini di riconoscimento della parità tra i sessi che di valorizzazione della differenza di genere, ci sarebbe moltissimo da dire, ma non abbiamo tempo. Vorrei almeno sottolineare che il cristianesimo è l’unica religione il cui rito d’iniziazione, il battesimo, è da sempre aperto a maschi e femmine.

C’è dunque una mancanza iniziale, nel pensiero liberale, che non è mai stata colmata. E’ l’incapacità a concepire e includere la maternità, che resta una sorta di anomalia della cittadinanza, di eccezione alla regola, dove la regola è il corpo che non si riproduce. Nel secondo dopoguerra, grazie a un allargamento dei diritti, nel mondo occidentale anche le donne sono entrate nel flusso dell’individualismo di massa, mantenendo però tutte le ambiguità dovute alla mancanza che abbiamo segnalato. La vulgata emancipazionista (che gode di grande successo trasversale presso le parlamentari italiane), che ha banalizzato e tradotto in un “femminismo dei diritti” la complessità del pensiero delle donne, ha ignorato la contraddizione, e ha sposato senza riserve l’omologazione al modello maschile. In questo modo, la maternità continua a essere qualcosa di non pensato, e di fronte ai futuri scenari della nascita, all’introduzione delle tecnologie riproduttive, ai nuovi problemi di etica e di biopolitica, i liberali continuano a ricorrere soltanto alla categoria della libera scelta individuale, ormai totalmente inadeguata alla realtà contemporanea, e ancora di più a quella futura.

Su questo terreno l’incontro con la cultura cattolica, che fin dall’inizio ha acquisito come elemento centrale del concetto di persona la procreazione, può dare ottimi frutti. In ogni caso, è urgente uno sforzo di riflessione innovativa, da parte liberale.

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I tormenti dei cattolici adulti


di Eugenia Roccella
da Ideazione di luglio-agosto 2006

Con l’articolo del 18 giugno sul Corriere della Sera, “Il dialogo finito con i cattolici”, Ernesto Galli della Loggia ha dichiarato morto il cattocomunismo. È un’analisi che condividiamo pienamente. Il terreno delle tematiche sociali, su cui sarebbe dovuto avvenire l’incontro storico tra le due grandi culture popolari, la comunista e la cattolica, si è progressivamente inaridito, riducendosi a una steppa disabitata in cui vagano gruppi di superstiti confusi. Con la stessa spaventosa velocità con cui nel dopoguerra è scomparsa la civiltà contadina, portandosi via in un colpo la secolare questione della terra e della “roba”, a partire dagli anni Ottanta si è andata liquefacendo la classe operaia, e soprattutto si è conclusa l’epoca della sua centralità politica. Il dibattito sulle possibili soluzioni per colmare le diseguaglianze, sulla solidarietà e la concertazione, persino sulla sopravvivenza dello Stato sociale, non impegna più gli intellettuali e non scalda più il cuore del popolo di sinistra.
Sul numero di gennaio 2006 di Ideazione (“Radicali a sinistra e l’Unione zapateriana”), avevamo analizzato il passaggio a sinistra del Partito Radicale come una scelta obbligata, non più classificabile come una delle tante fluttuazioni tra l’anima liberista (orientata a destra) e quella libertaria (orientata a sinistra) dei pannelliani. L’ipotesi che l’opzione prodiana fosse per loro ormai inevitabile, era collegata proprio alla prevalenza nel dibattito politico dei temi etici, e al destino di progressiva irrilevanza identitaria a cui sono consegnati quelli economici e sociali. Non certo perché l’economia solleciti minore attenzione da parte dell’elettorato, ma perché non è più possibile avere, nei confronti delle scelte di politica economica, approcci radicalmente diversi, che rimandino a posizioni immediatamente riconoscibili. Nella notte della globalizzazione tutti i ministri del Tesoro tendono ad essere grigi, e le decisioni si inseriscono in un ordine che non è più quello nazionale, ma quello europeo, stabilito e negoziato a Bruxelles.

Capita anche che le differenze tra i due schieramenti siano il contrario di quelle che ci si aspetterebbe (come nel caso delle norme sul precariato: la legge Biagi è più garantista nei confronti dei lavoratori di quella varata dal centrosinistra). A conferma di quanto i tentativi di trovare riconoscibilità nella politica economica siano vani basterebbe ricordare il clamoroso fallimento di un obiettivo qualificante come le 35 ore in Francia, così come il sollievo dimostrato dalla gran parte della sinistra in occasione del fallimento del referendum sull’articolo 18 promosso da Rifondazione. Persino l’antica e solida vocazione statalista del centrosinistra fatica a trovare sbocchi ideologici coerenti, elaborazioni nuove che convincano l’opinione pubblica, e rischia – si è visto con chiarezza durante la campagna elettorale – di far identificare l’Ulivo semplicemente come il partito delle tasse.

È difficile per tutti, ma in particolare per la sinistra, trovare in un progetto economico e sociale una identità robusta, proprio perché è lì che la vecchia identità comunista è finita in pezzi, è lì che si possono contemplare le rovine ideologiche e i fallimenti storici. Con la sostituzione della sua base elettorale e sociale, la sinistra ha sostituito anche i suoi temi forti, assumendo con rapidità sorprendente quelli tipici dei radicali. Diritti individuali sempre più ingombranti ed estensivi, e totale via libera all’odiato “edonismo reaganiano” (non c’è nessuno esperto di buoni vini, buona cucina, buona qualità della vita, come gli ex sessantottini), alla cultura della “libera scelta”, alla distruzione della tradizione, alla manipolazione integrale del corpo e della nascita.

Come collocare i cattolici all’interno di questo quadro? Molti insistono, per radicata abitudine, a considerare la sinistra il proprio luogo naturale, ma la vita per loro diventerà sempre più scomoda, come si può intuire già dagli imbarazzati silenzi del cattolico adulto Romano Prodi. D’altra parte è solo sui temi eticamente sensibili che si può tenere unita l’eterogenea compagine della maggioranza, perché in questo campo la sinistra estrema può essere accontentata senza danno per i complicati equilibri tra poteri forti e governo. Ci sarà dunque un interminabile balletto di dubbi e discussioni, annunci e controannunci, avanzate e ritirate, su pacs, coppie di fatto, legge 40, eugenetica, eutanasia, in cui verrà dato grande risalto pubblico alla presenza e ai tormenti dei cattolici dell’Unione. Intanto, però, saranno rosicchiati gli spazi reali di mediazione, finché la semplice linea difensiva apparirà un compromesso accettabile, come è già accaduto per il colpo di mano di Mussi in Europa. Le obiezioni di Binetti o Bobba non si sono tradotte in iniziativa politica, e non hanno mai costituito il minimo rischio per la maggioranza. Se non c’è rischio, perché ascoltare quelle obiezioni? E perché la scelta del ministro della Ricerca non è stata interpretata come una grave minaccia all’unità della maggioranza e alla stabilità del governo (e quindi annullata), mentre l’opposizione dei cattolici viene caricata di responsabilità? Il primo atto di questo governo, una vendetta contro il voto referendario sulla procreazione assistita, ha ben chiarito i limiti del compito che si vorrebbe affidare ai cattolici: un ruolo del tutto inessenziale e decorativo, utile solo per esibire un dibattito che non c’è.

Nell’articolo che abbiamo citato, Galli della Loggia conclude che quella cattolica sui temi etici è «una battaglia disperata, ma nobile e importante come sono spesso le battaglie delle minoranze contro le opinioni, e l’inevitabile conformismo, delle maggioranze». Su questo punto non siamo d’accordo: la resistenza sui temi etici non è né disperata, né inesorabilmente minoritaria. L’irruzione della biopolitica nella quotidianità, la pressione disgregativa a cui viene sottoposta la famiglia, i dilemmi sulla vita e la morte posti dalla tecnoscienza, hanno creato una inedita e vincente alleanza tra laici e cattolici, che in Italia ha dato origine all’astensione di massa sul referendum del giugno 2005. L’ intransigente difesa della vita umana è stata a lungo un tratto distintivo dei cattolici, quasi un’esclusiva, e negli anni Settanta sembrava una posizione indifendibile, una cittadella assediata dalla rivoluzione antropologica postmoderna, destinata prima o poi a cadere. Invece, l’area di consenso intorno al nucleo duro della tutela della vita e della sua dignità si è allargata, superando anche la divisione tra laici e cattolici, e non solo in Italia. In tutto il mondo ormai nascono strane alleanze tra soggetti che hanno radici culturali e ideologiche assai distanti (ambientalisti, cyberfemministe, movimenti no-global), che trovano nella fermezza delle posizioni cattoliche un punto di riferimento. Da noi, il referendum sulla procreazione assistita ha creato uno schieramento trasversale che ha portato a casa una vittoria di proporzioni schiaccianti e inaspettate; ma inaspettato è stato anche il voto europeo sui limiti etici alla ricerca sugli embrioni. Lo scarto tra maggioranza e minoranza, infatti, è stato minimo, e tutti i gruppi parlamentari sono usciti dal voto lacerati. Sul piano internazionale cresce la consapevolezza sull’impatto disgregativo che alcuni “diritti” potrebbero avere sulla comunità, e cresce il rifiuto etico nei confronti di pratiche manipolative che sfociano nella selezione genetica e nell’indifferenza per la vita umana.

In questo nuovo panorama fitto di segnali in controtendenza, l’Italia ha un’importanza centrale. Quella che è stata definita l’anomalia italiana, diventa l’occasione per esercitare un ruolo di avanguardia e di traino nei confronti della crescente ostilità all’ondata relativista che rischia di sommergerci. Chi sembra non accorgersi della nuova situazione è una parte del clero cattolico, tenacemente legato a vecchi moduli interpretativi. Nell’intervista rilasciata dal cardinale Martini al chirurgo e deputato ds Ignazio Marino sull’Espresso, per esempio, si legge in filigrana l’idea di una Chiesa sempre in ritardo e in affanno rispetto al progresso e alla scienza, una Chiesa a cui si chiede con impazienza uno sforzo di aggiornamento e di apertura. C’è dietro l’idea dello “scisma sommerso”, di una drammatica divaricazione tra i comportamenti concreti dei fedeli e gli imperativi morali troppo rigidi difesi dalle gerarchie ecclesiastiche. E c’è l’idea di una storia che cammina verso una direzione di miglioramento, e di un radioso futuro a cui l’evoluzione scientifica dà un contributo essenziale. Il cardinale fornisce risposte prudenti, ma postula come terreno di incontro possibile l’esistenza di una “zona grigia”, in cui le certezze etiche si appannano, e i principi non negoziabili di Ratzinger sfumano in una cauta negoziabilità. È questo il salvagente inadeguato a cui si attaccano i cattolici di sinistra, accettando, consapevolmente o meno, una posizione di subalternità culturale.
La irrinunciabilità di quei principi, l’esistenza di limiti certi e invalicabili sono, invece, la vera forza del mondo cattolico, e il motivo della sua rinnovata capacità di attrazione e di leadership. I cattolici che vogliono stare a sinistra, devono verificare i margini di compatibilità con la politica dell’Unione sui temi etici, e farlo subito, prima di scoprire che si trovano più vicini a Fabio Mussi che al Papa.

13 luglio 2006