martedì, agosto 22, 2006

La destrutturazione della madre e del padre.

da Dopo il femminismo - Eugenia Roccella, Ideazione Editrice (2001)

Immagini di donne

L'immagine femminile impazza, declinata ossessivamente in ogni variazione possibile. [...]

In questa sfilata di costumi e di maschere manca l'immagine femminile a cui eravamo più abituati, la donna con bambino in braccio. Forse perchè tabuizzata dal riferimento all'iconografia sacra, da una devozione popolare alla Madonna, meno accesa di un tempo ma ancora influente, la madre non è quasi mai proposta in quanto tale. Se ha il bambino in braccio è decarnalizzata, bionda, composta ed eterea, priva (lei come il neonato) di componenti terrene e corporee. Il seno che allatta appare solo negli spot su pochissimi prodotti specifici, ed è sempre ripreso in primo piano, separato dal volto materno. Difficile vedere, nella pubblicitá, una madre che gioca davvero con il figlio, una madre qualunque, magari leggermente spettinata o un po' abbondante, che stringa un bambino con trasporto fisico, con normale impeto affettivo. Eppure sono immagini che ognuno di noi ha stampate nella memoria e nel cuore, immagini di impatto emotivo sicuro e immediato. Sono, però, immagini vietate. Le mamme devono essere non riconoscibili, senza segni visibili, senza indizi di maternitá.

Breve (e istruttiva) storia dell'allattamento al seno

L'allattamento al seno nel dopoguerra è stato scoraggiato dalla classe medica, e le stesse donne hanno salutato il biberon e il latte artificiale come un passo verso l'emancipazione da una maternitá opprimente, totalizzante. Poi qualcuno cominciò a scoprire che allattare al seno era un'esperienza fondamentale e gratificante sia per la madre che per il neonato; inoltre, le virtù del latte materno, prodotto su misura per quel particolare bambino, si rivelarono sempre più ricche, sorprendenti e difficili da imitare. Nacquero i primi gruppi di donne che lottavano per sostenere la prioritá dell'allattamento al seno, cominciò a diffondersi la coscienza che questa pratica allontanava, fra l'altro, il rischio di tumori alla mammella. Tutto questo non ha evitato che le donne con i neonati attaccati al seno scomparissero dalla nostra vita, dalle strade, dai cartelloni pubblicitari. In un mondo in cui le frontiere del comune senso del pudore sono fluttuanti e incerte, il seno femminile come attributo erotico è mostrato senza problemi anche ai bambini, mentre è tacitamente vietato esporlo quando allatta.

Ricordiamo la narrazione, spassosa e tagliente, di un allattamento al seno ormai in controtendenza, nel romanzo di Mary Mc Carthy, Il gruppo. La protagonista dell'episodio, Priss, è una giovane mamma colta ed emancipata, esperta di economia, nell'America protesa verso il moderno degli anni '5O. L'allattamento al seno, ormai lontano dall'essere un comportamento spontaneo e abituale, è condotto come un esperimento di avanguardia, gestito dal marito pediatra, all'interno di una struttura sanitaria compattamente pro-biberon. Dopo un colloquio telefonico con un'amica che vorrebbe convincere Priss a fare un servizio fotografico da vendere al Reader's Digest, il capitolo si conclude così: " -Io non lo farò in pubblico- disse Priss -E se è una cosa così naturale, perchè ci tieni tanto a metterlo in una rivista? Tu pensi che non è naturale, ecco perchè.- E riagganciò il telefono. Non era naturale, si disse sconsolatamente. Per puro caso (l'amica, ndr) aveva messo il dito sulla piaga. Lei faceva 'la cosa più naturale di questo mondo', allattando il suo piccolo, e invece per qualche strana ragione ciò era del tutto innaturale, forzato e falso, come una fotografia combinata. Tutti all'ospedale lo sapevano, sua madre lo sapeva, i suoi amici lo sapevano; ecco perchè parlavano tutti del suo allattamento come fosse entusiasmante, quando invece non lo era, salvo come argomento di conversazione. In realtá, ciò che stava facendo era una cosa orrenda, e proprio ora, nella nursery, si stava levando la voce di un bambino per dirglielo. (...) Quella voce esprimeva una richiesta naturale, in quest'epoca e in questa civiltá; quella voce reclamava il biberon." [1]

Il testo è un concentrato esemplare dei conflitti che hanno agito sul corpo delle donne attraverso la scienza e la medicina. L'organizzazione sanitaria appare (per fortuna sempre meno) oggettiva, innocente, protettiva, e viene vissuta dalle donne nella forma di nuovi diritti (diritto alla salute, all'assistenza pubblica e gratuita ecc.). Le domande che si pone la sconcertata Priss sono, cambiando i contenuti, le stesse che ci poniamo a distanza di cinquant'anni: è naturale, "in quest'epoca e in questa civiltá" allattare al seno? Tra qualche tempo potremo dire: è naturale concepire e dare alla luce un bambino nel modo tradizionale? Non è meglio, per lo stesso bambino, essere concepito e svilupparsi in un luogo più adeguatamente equipaggiato di un rozzo utero femminile?

Accantoniamo, per il momento, la questione della naturalitá, per riprendere l'esemplare vicenda dell'allattamento al seno. Che il latte materno sia l'elemento nutrizionalmente più adatto al bambino, costruito su misura per lui, che lo scambio fisico e affettivo che si instaura fra madre e figlio in questa fase sia un confortante prolungamento del rapporto simbiotico interrotto con la nascita, sono cose che oggi anche la medicina ufficiale dá per scontate. Si sa persino che i neonati ammalati guariscono prima se tenuti in braccio, a contatto stretto con il corpo e il calore materno, e sono molti, ormai, gli ospedali che praticano il rooming, lasciando la culla il più a lungo possibile nella stanza della madre, invece di tenere i piccoli in una nursery separata. Abbiamo però dovuto aspettare anni per vedere dimostrato scientificamente quello che una volta per la madri era abitudine condivisa e conoscenza intuitiva, grazie alla catena di donne che se ne era tramandata l'esperienza e il sapere.

Ma il processo con cui le informazioni che giá possedevamo ci sono state tolte e restituite, non è stato indolore: in questo modo la scienza medica e l'organizzazione sanitaria hanno distrutto il know-how tradizionale, hanno destabilizzato le certezze materne, hanno tagliato quella cinghia di trasmissione dei saperi femminili a cui ciascuna di noi, attraverso mamme, zie, nonne, amiche, faceva riferimento. Le informazioni, invariate nel contenuto, ci sono state gentilmente riproposte ormai devitalizzate, spogliate dal calore del vissuto, dall'idea di autoritá femminile che le accompagnava, disinfettate e formulate nel linguaggio della divulgazione scientifica. Un linguaggio falsamente neutrale, che le madri di famiglia tentano di padroneggiare leggendo, ascoltando, comprando libri e riviste e scambiandosi notizie; ma che, in ogni caso, non appartiene più a loro, a una cultura e una storia autorevole coltivata 'a prescindere' dal mondo maschile.

La scomparsa dell'immagine materna

La scomparsa dell'immagine materna ha molte cause, ma è in primo luogo connessa al nuovo narcisismo femminile, molto incoraggiato e promosso dalla societá dei consumi. Non si tratta dell'onnipresente stereotipo della vanitá femminile, così a lungo coltivato dalla letteratura misogina, ma di un tassello fondamentale del processo di emancipazione. L'attenzione focalizzata su di sè, e finalmente sottratta al divorante ruolo familiare, ha costituito un passaggio necessario per scoprirsi individuo, liberarsi dallo schiacciante obbligo alla devozione, dalla mistica del sacrificio, dall'oblativitá coatta. Per la veritá, non è soltanto la figura materna ad essere uscita dalla circolazione, ma anche quella paterna, cioè l'immagine di una virilitá responsabile, protettiva verso i più deboli, conscia dei propri doveri sociali e privati. Un modello opposto a quello, sempre più diffuso, del machismo tutto bicipiti, pettorali e straordinarie performance erotiche, o a quello dell'eterno adolescente, tenero, sensibile e cucciolone (alternativa che le giornaliste di costume riassumono nell'interrogativo "macho o micio?").

Sia l'immagine materna che quella paterna sono, però, poco spendibili dal punto di vista del mercato, perchè dedite non soltanto all'ora e qui, ma alla costruzione del futuro, quindi a una certa sobrietá, al senso del limite, alla coscienza dell'impegno formativo, tutte qualitá che mal si conciliano con la moltiplicazione e l'esaudimento dei bisogni individuali. La cultura del narcisimo di massa ha inghiottito il modello sociale paterno e materno, lasciando ognuno solo con il proprio patrimonio culturale, in un tessuto di relazioni e appartenenze che spesso, soprattutto nelle grandi cittá, si è disintegrato. Siamo liberi di creare a nostro piacimento nuovi modelli genitoriali, come siamo liberi di mettere insieme gruppi familiari di tipo anomalo, convivenze sganciate dai legami di parentela, dalla procreazione, basate esclusivamente su patti personali.

Il risultato, dal punto di vista femminista, è molto contraddittorio. La maternitá, privata di ogni elemento socialmente gratificante, punita in moltissimi modi, resiste, legata com'è a insopprimibili bisogni, a una immaginazione segreta, a fortissime motivazioni inconsce e (ancora) corporee. L'ancoraggio del materno al corpo e alle sue proiezioni profonde fa sì che il rapporto madre-figlio sia forse l'unico davvero indissolubile della societá contemporanea. La maternitá (e lo testimonia la crisi di natalitá che affligge l'occidente) è però abbandonata a se stessa, in un deserto sociale e affettivo che impoverisce le donne sia dal punto di vista simbolico che da quello economico.

Alla crisi di identitá genitoriale la scienza fornisce risposte efficienti e riduzioniste, che tendono a delimitare al puro dato biologico (peraltro manipolabile) il significato dell'essere padre e madre: il padre è, alla fine, identificato con lo spermatozoo, la madre con l'ovulo. Ma se il dato biologico è quello primario [2] va ricordato che paternitá e maternitá hanno bisogno di collocarsi dentro una cultura, un tessuto sociale, una rete di riferimenti simbolici; non agiscono nel vuoto, non possono essere qualsiasi cosa l'individuo decida che siano. La paternitá, che da sempre è più incerta ed evanescente, soffre in modo grave della destrutturazione del ruolo sociale e simbolico, mentre la maternitá riesce ancora a trovare risorse profonde e autosufficienti. Ma le madri sono sempre più sole.



[1] Mary Mc Carthy, Il gruppo , Mondadori, Milano, 1964, p. 383.

[2] "La funzione simbolica, dunque, non è scorporabile da quella biologica, e chi è biologicamente il genitore è chiamato comunque ad essere padre anche sul piano simbolico." in: Marisa Fiumanò, A ognuna il suo bambino, Pratiche editrice, Milano, 2OOO, p. 135.



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Modificare le parole per destrutturare i rapporti

Cosmesi linguistica specialità degli Zapatero

Eugenia Roccella

Un colpo di spugna lessicale, e il gioco è fatto: non ci sono più moglie e marito, non c’è più la famiglia tradizionale. La riforma del matrimonio attuata da Zapatero ha spiazzato tutti. Non c’è stato bisogno di passare attraverso una modifica costituzionale o una discussione articolata sulle norme. E’ bastato semplicemente sostituire maschile e femminile con il genere neutro, con una brillante mossa a sorpresa; incredibile che nessuno ci avesse mai pensato prima.
Infatti qualcuno ci aveva già pensato. La via linguistica alla destrutturazione dei rapporti di parentela non è frutto del genio politico del premier spagnolo, anche se sua è la determinazione disinvolta con cui l’ha imboccata. Lo zapaterismo non agisce nel vuoto, ma nasce dal progetto culturale portato avanti con sistematicità e coerenza dalle Nazioni unite e, a seguire, dall’Unione europea.
Sono anni che, a livello internazionale, è in atto una rivoluzione terminologica, una meditata strategia delle parole che si articola in alcune riconoscibili modalità di intervento. In primo luogo, la manipolazione di tipo eufemistico, che parte dalle più classiche perifrasi del politicamente corretto, per scivolare allegramente nella censura; poi l’uso di un vocabolario tecnico, che serve a mascherare, dietro un’apparente asetticità, una precisa impostazione ideologica; infine c’è una tendenza esplicitamente programmatica, che diffonde un lessico di trasformazione concettuale.
L’uso di termini eufemistici punta a desensibilizzare le coscienze, ma è talvolta così plateale da lasciare disarmati: per esempio l’Unfpa (l’agenzia dell’Onu per la popolazione), che nei campi profughi distribuiva un’attrezzatura chiamata "kit d’interruzione di gravidanza", con molto tatto ne ha cambiato il nome in "kit di emergenza per la salute riproduttiva", per evitare rifiuti pregiudiziali.
Questa tendenza alla cosmesi linguistica si limita a ritocchi di superficie, e non arriva al cuore dei concetti. Tutt’altro effetto si ottiene con il vocabolario tecnico, volutamente neutro, che ha ormai soppiantato tutti i termini ritenuti troppo valoriali, troppo carichi di storia e di significati. Da tempo, per esempio, è bandita dai documenti Onu la parola maternità, se non dove è impossibile sostituirla. Nemmeno si parla più di procreazione, ma soltanto di salute riproduttiva o diritti riproduttivi, definizioni in cui l’aggettivo richiama la riproduzione dell’identico, quindi della specie, ed evita di alludere alla preziosa unicità dell’essere umano. Naturalmente anche "madre" e "padre" sono pressoché scomparsi, in favore di "genitorialità" o "progetto parentale", termini sessualmente neutri.
Alla tendenza che abbiamo definito programmatica appartiene la sostituzione (ormai a uno stadio di realizzazione molto avanzato) delle parole uomo e donna con "genere". In questo caso non si tratta solo di privilegiare la neutralità, ma di introdurre l’idea che l’identità sessuale sia una pura convenzione, tutta interna all’ambito della cultura, dunque fluttuante e modificabile, senza un fondamento necessario nella biologia e nel corpo.
E’ chiaro dove il Primo ministro spagnolo ha tratto la sua ispirazione. In Italia siamo poco abituati a prestare attenzione a quanto avviene negli organismi internazionali, che per l’opinione pubblica sono sigle benemerite, viste nella rosea nebbia della lontananza. Ma l’attività dell’Onu, e ovviamente ancora di più quella dell’Unione Europea, ci tocca da vicino. Ce ne accorgiamo quando, come nel caso di Zapatero, il progetto culturale internazionale si incarna in una politica nazionale definita, qualcosa che esce dal limbo innocuo delle parole, e diventa drammaticamente un fatto.

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Presentato il volume della scrittrice Rosa Alberoni, “La cacciata di Cristo”

RIMINI, lunedì, 21 agosto 2006 (ZENIT.org).- “Giacobinismo, nazismo e comunismo non sono riusciti a cancellare Dio e Cristo è la più grande rivoluzione della Storia”, sostiene Rosa Alberoni, scrittrice e docente di Sociologia alla IULM di Milano.

Così ha riassunto la Alberoni il contenuto del suo ultimo libro “La cacciata di Cristo” (Rizzoli, 222 pagine, 17 Euro), presentato il 20 agosto al XXVII Meeting dell’Amicizia tra i Popoli in svolgimento in questi giorni a Rimini.

Partendo dalle parole di Giovanni Paolo II secondo cui “la storia ha ampiamente dimostrato che fare guerra a Dio per estirparlo dal cuore degli uomini porta l’umanità impaurita e impoverita verso scelte che non hanno futuro” la scrittrice ha dimostrato come “l’illuminismo, il nazismo e il comunismo abbiano cercato di eliminare Dio, negare Cristo, legittimato la dittatura, cancellato gli individui e diffuso il paganesimo”.

Secondo Rosa Alberoni la Rivoluzione francese è stata “una guerra scatenata contro il cristianesimo, culminata con l’abolizione della datazione cristiana”. La scrittrice ha ribadito che “giacobinismo, marxismo e nazismo hanno condotto una guerra al cristianesimo non solo con strumenti culturali ma con la ghigliottina, le fucilazioni, i campi di concentramento e di sterminio”.

Illustrando la seconda parte del libro, l’autrice ha analizzato la grande rivoluzione nella storia rappresentata da Cristo, e quanto “il messaggio cristiano sia fondamentale per affrontare sfide come quella islamica e cinese, che premono alle nostre frontiere, e lo scientismo ateo sul fronte interno”.

“Il cristianesimo – ha detto la docente di Sociologia – è l’unica religione in cui Dio si fa tangibile, si fa uomo per parlare agli uomini, ed è Padre di fratelli lasciati liberi anche di ribellarsi a Lui”.

“Nell’Islam invece Allah non si propone come Padre – ha osservato –. Per i musulmani il ‘Padre Nostro’ è una bestemmia, il libero arbitrio non è contemplato e tutti, dagli animali agli uomini, addirittura la mano dell’uomo che uccide, sono un puro strumento del potere di Allah”.

Rosa Alberoni, che pure è credente e praticante, sebbene non sia conosciuta come scrittrice cattolica, ha precisato con forza che è “il cristianesimo che dà un senso ed una meta alla vita terrena”.

In merito a come devono comportarsi i cristiani, la scrittrice ha sottolineato che: “Non bisogna aspettare passivi e inerti la distruzione della civiltà cristiana, è giunto il momento per i credenti di alzare la testa, di parlare, di difendere i valori cristiani praticandoli, riconsacrandoli nei gesti, perché solo così si possono fronteggiare le sfide moderne”.

Circa il timore di parlare di Cristo, la Alberoni ha chiesto ai presenti “perché non si ha il coraggio di parlare apertamente di Cristo?”. “Cristo è l’innominato”, ha infatti osservato.

“Invece – ha concluso l’autrice de ‘La cacciata di Cristo’ – non si deve avere paura di parlare di civiltà cristiana, non semplicemente di civiltà occidentale, perché, caduto il sistema sovietico, siamo un unico popolo cristiano in Europa, Russia, Americhe, Australia e parte dell’Africa e dell’Asia”.

Angelo Lorenzo Crespi, Direttore de “Il Domenicale”, ha chiesto alla Rosa Alberoni come è stato possibile che soprattutto nell’Europa cristiana sia avvenuto un tale capovolgimento di mentalità che molte parole hanno assunto un nuovo significato in un nuovo contesto.

La scrittrice ha risposto ricordando che “negli ultimi decenni del XX secolo si era creato un certo ottimismo perché le grandi religioni atee, illuminismo, nazismo e comunismo, sembravano sconfitte, purtroppo però l’azione di destrutturazione dei fondamenti del cristianesimo continua in tutto il mondo”.

La Alberoni ha ricordato come parte di questa destrutturazione l’attacco contro la concezione della famiglia tramite la legalizzazione di divorzio e aborto, ed ha indicato nelle tecniche di manipolazione genetica degli embrioni la tentazione scientista di sostituirsi a Dio.

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Nel libro «Contro il Cristianesimo, l'attacco dell'Onu e dell'Unione Europea» due studiose mettono sotto accusa i grandi organismi internazionali

Quei valori laici che offuscano i diritti dell'uomo

Scarffia: trionfano le lobby ideologiche. Roccella: l'Unicef trascura i bambini

di Danilo Taino

Quando, lo scorso marzo, Kofi Annan ha proposto di chiudere la scandalosa Commissione per i diritti umani dell'Onu, il segretario generale delle Nazioni Unite ha probabilmente gettato, consapevole o non, un seme che nel tempo potrebbe dare frutti. Non tanto per la proposta in sé: la Commissione — che negli ultimi anni ha avuto tra i suoi membri Libia, Cuba, Arabia Saudita, Siria, Vietnam, Congo, Zimbabwe, Paesi più competenti di galere che di diritti umani — ha già la reputazione della volpe che fa la guardia al pollaio e nessuno le da credito. Piuttosto, perché ora si do vrà discutere apertamente della questione e il dibattito potrebbe far tremare qualche pilastro del Palazzo di Vetro. Soprattutto, potrebbe incrinare quella che negli ultimi decenni è diventata una vera e propria «religione dei diritti umani», una dottrina del politicamente corretto che sta facendo più di un guaio.

Una fila di profughi in Congo

La questione salta gli steccati classici destra/sinistra, colpisce molte sensibilità, coinvolge migliaia di militanti, di volontari e di mercenari ma, dall'altra parte, è spesso sottovalutata. Per intendersi, non è un «esercito del buonismo», come si tende a pensare in Italia, liquidando il tutto come fosse una moda o la furberia di qualche politico: quella che è nata all'interno dell'Onu e, in forme diverse, nell'Unione Europea è molto di più, è un'ideologia dei diritti umani, visti come astratti, slegati dalla realtà e quindi divinizzati in se stessi. Qualcosa di molto serio e anche di poco analizzato, tanto che c'è il rischio di andare in confusione.

Oggi, però, esce nelle librerie un testo che da un contributo sostanziale all'inquadramento e alla comprensione di quello che sta succedendo alle Nazioni Unite e alla Uè. Contro il Cristianesimo, l'attacco dell'Onu e dell'Unione Europea di Eugenia Roccella e Lucetta Scaraffia — Edizioni Piemme, 180 pagine, € 11,50 — è una critica alla politica e alla visione dei diritti umani che prevale nei palazzi di New York e Bruxelles, una revisione del dibattito e del processo istituzionale che ha portato i diritti umani a evolvere, dalla Dichiarazione del 1948 a oggi, in una nuova «religione laica». Una presa di posizione radicale contro due dei maggiori centri del potere del Ventunesimo secolo.

Nel primo dei due saggi che costituiscono il libro — «I diritti dell'uomo: realtà e utopia» — Lucetta Scaraffia, docente di Storia contemporanea, sostiene che alle Nazioni Unite si è, negli ultimi decenni, radicata una visione dei diritti umani senza riferimenti alla superiorità del diritto naturale, come inteso dal cristianesimo e come sostenuto strenuamente oggi dalla Chiesa cattolica. Al suo posto, si è affermato un relativismo dal quale nasce una «fragilità dei diritti», ormai percepiti come autonomi da qualsiasi valore fondante capace di giudicarli e di metterli in discussione. Si è creato così un potere dei diritti umani astratti, senza un fine, che non ha la capacità ma nemmeno la pretesa di capire il mondo: «La fede dell'avvenire è rimpiazzata dall'indignazione», dalla «tirannia impotente dei buoni sentimenti», che non comprendono il mondo ma si costituiscono in «comoda ideologia consensuale» e in lobby di potere.

Per affermarsi, questa visione ha ovviamente dovuto fare le sue battaglie. E la principale, dice la Scaraffia, è quella contro il cristianesimo e la Chiesa, considerate la peggiore minaccia alle basi stesse di questo pensiero unico. Non direttamente attraverso lo scontro con il Papa o le gerarchie ma indirettamente, cercando di minarne le basi: in nome dei diritti umani, la famiglia viene attaccata; la libertà religiosa e il dialogo interreligioso sono indirizzati contro il cristianesimo; la «pianificazione demografica» assume un ruolo centrale; temi come la salute vengono affidati a «nuovi eroi», come i medici umanitari che si trasformano in politici, genere Gino Strada. E' un umanitarismo «apolitico e depoliticizzante di gestione del sociale» dice la Scaraffia, che ha l'origine più convinta probabilmente nell'Onu e nelle organizzazioni ufficiali e semiufficiali che le stanno aggrappate ma che ha una grande forza anche a Bruxelles: la discriminazione subita da Rocco Buttigliene nel caso della sua bocciatura a commissario Ue, dice l'autrice, e l'atteggiamento distaccato assunto per l'occasione dal cattolico Romano Prodi ne sono una testimonianza.

Nella seconda parte del libro — «Non crescete, non moltiplicatevi» — Eugenia Roccella, giornalista-storica di origine radicale e già leader del movimento femminista, fecalizza la critica sulle politiche di «pianificazione familiare» e sulle loro evoluzioni verso i cosiddetti «diritti riproduttivi». Sia nel caso del terrore imposto dalla politica del figlio unico in Cina sia nell'idea, anche europea, del diritto di aborto come strumento di controllo demografico, la Roccella sostiene che si tratta di violazioni spesso spaventose dei diritti delle donne, mascherate dal mantello «progressista» di un presunto diritto umano a controllare le nascite. Un furto del femminismo, dice, a opera della lobby anti-natalista, la quale ha conquistato l'Unione Europea, l'Onu e le sue agenzie, persine l'Unicef, che dovrebbe occuparsi di bambini e si è invece trasformata in ennesimo centro di controllo delle nascite, al punto che una rivista scientifica autorevole come Lancet l'ha definita «uno dei maggiori ostacoli per la sopravvivenza dei bambini nei Paesi in via di sviluppo».

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ROMA, 7 luglio 2005 – A fine giugno l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha compiuto sessant’anni. Ma l’amministrazione di George W. Bush l’ha festeggiata a modo suo: le ha negato per il quarto anno consecutivo i 34 milioni di dollari in precedenza dati all’UNFPA, il Fondo dell’ONU per la Popolazione.

Motivo: le politiche antinataliste che l’UNFPA finanzia in Cina, a sostegno della sterilizzazione femminile e maschile e dell’aborto forzato dei figli handicappati o in soprannumero. I 34 milioni di dollari così risparmiati l’amministrazione Bush li impiegherà in programmi d’assistenza medica a donne e bambini poveri, e nella lotta contro il traffico sessuale in Asia.

Negli stessi giorni, l’ONU ha riunito per un’audizione di fronte all’assemblea generale una rappresentanza delle 13 mila organizzazioni non governative ad essa collegate. Ma tra le 200 ONG selezionate non ce n’era nessuna pro-vita e pro-famiglia. C’erano invece quelle più attive sul fronte antinatalista, tra cui la International Planned Parenthood Federation, IPPF, e la Women’s Environment and Development Organization, WEDO. Quest’ultima ha fatto circolare una mozione contro i “fondamentalismi culturali e religiosi” che ostacolano i “diritti riproduttivi”.

Sempre negli stessi giorni, sull’altra sponda dell’Atlantico, il parlamento dell’Unione Europea ha approvato con 360 voti a favore, 272 contrari e 20 astenuti una “Risoluzione sulla protezione delle minoranze e le politiche contro la discriminazione”. In essa, la libertà religiosa è indicata come una potenziale minaccia contro la “libera circolazione nell’Unione Europea delle coppie omosessuali sposate o legalmente riconosciute”. A favore della risoluzione ha votato anche il deputato Vittorio Prodi, fratello di Romano Prodi, cattolico progressista, capo del governo italiano dal 1996 al 1998 e presidente della Commissione Europea dal 1999 al 2004.

Nel 2002, con Prodi presidente, la Commissione Europea sopperì alla decisione di Bush di ritirare i finanziamenti USA all’UNFPA erogando una somma quasi identica, 32 milioni di euro, alla stessa UNFPA e all’IPPF.

La Santa Sede ha propri rappresentanti sia presso l’UE, sia all’ONU. Nel Palazzo di Vetro gode di uno status di osservatore permanente, confermato e rafforzato da una risoluzione del 1 luglio 2004. Ma in nessuna di queste due grandi organizzazioni internazionali ha vita facile.

Anzi, la Chiesa cattolica è spesso lì trattata come il nemico numero uno. Lo è in quanto religione monoteista, e come tale ritenuta generatrice di intolleranza. E lo è soprattutto in quanto antagonista – assieme all’attuale amministrazione americana – di quella filosofia dei “diritti riproduttivi” che è il verbo indiscutibile dell’ONU e dell’UE in materia di famiglia e procreazione.

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In Italia è uscito un libro che mette a fuoco per la prima volta in modo diretto e documentato questa avversione anticattolica dell’ONU e dell’UE. Il titolo è esplicito: “Contro il cristianesimo. L’ONU e l’Unione Europea come nuova ideologia”. Le autrici sono Eugenia Roccella e Lucetta Scaraffia. La prima, non cattolica, è stata esponente di rilievo di movimenti femministi, la seconda insegna storia contemporanea all’Università di Roma La Sapienza. Assuntina Morresi ha curato l’appendice documentaria, con un capitolo dedicato alla storia dell’IPPF e un’altro alla sua fondatrice Margaret Sanger (1879-1966). Nell’introduzione al volume, Roccella e Scaraffia individuano la radice della nuova ideologia nella “separazione fra sessualità e procreazione”. Ne vedono lo sbocco “oltre i confini dell’aborto, nel ritorno strisciante all’eugenetica”. E concludono:

“Più che di un modello di comportamento sessuale diverso, ma concettualmente analogo a quelli che l’hanno preceduto nella storia, si tratta di una vera e propria utopia, perché si fonda sull’idea che gli esseri umani possano trovare la felicità nella realizzazione dei propri desideri sessuali, senza limiti morali, biologici, sociali e relazionali legati alla procreazione. Un’utopia che ha le sue radici nella rivoluzione sessuale occidentale degli anni Sessanta, e che risulta tuttora indiscussa anche se non sembra aver mantenuto le sue promesse. Un’utopia che ne riecheggia un’altra, di infausta memoria: che la selezione dei nuovi esseri umani possa creare un’umanità migliore, più sana, più bella.

“L’imposizione di questa utopia ai paesi del Terzo Mondo sembra costituire lo scopo principale dell’attività di molte organizzazioni internazionali, e condiziona aiuti finanziari e rapporti diplomatici.

“A questa si affianca, anzi, ne è il logico complemento, l’utopia irenica di chi crede che solo l’abolizione delle religioni – soprattutto quelle monoteiste – possa realizzare la fine dei conflitti per l’umanità. Si tratta di un pensiero così diffuso e così ben radicato che non si può facilmente mettere in discussione, soprattutto nelle sedi internazionali. E chi osa farlo, come la Chiesa cattolica, viene criticato, penalizzato e accusato di voler ostacolare la costruzione di un radioso futuro di armonia”.

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Il libro è tutto da leggere. Basta qui richiamarne alcuni spunti di particolare interesse:
l’indebolimento negli anni, attraverso successive varianti, della carta dei diritti universali del 1948, ove ad esempio l’originario diritto di “cambiare religione” si riduce ad “avere o adottare una religione” e infine, nel 1981, solo ad “avere una religione”;

la tesi delle organizzazioni dell’ONU secondo cui la famiglia “rappresenta l’istitituzione per eccellenza ove si definisce la subordinazione femminile” e quindi va combattuta e tendenzialmentre smantellata;

l’invenzione e la messa in opera su vasta scala della formula “salute riproduttiva”, secondo cui “il diritto alla vita è riservato solo alle donne, mentre una politica di severo contenimento demografico si oppone alla nascita dei figli”;

la dettagliata ricostruzione del sostegno dato dall’ONU – e anche da esponenti cattolici – a “eventi e organismi interreligiosi finalizzati a sostituire le religioni tradizionali con una religione unica, mondiale, basata sulla dichiarazione dei diritti dell’uomo”;

la decisione della Santa Sede, annunciata nel 2000, di sospendere il proprio

contributo finanziario all’UNICEF, perché “trasformato da baluardo in difesa dei bambini e delle madri in ennesima agenzia per il controllo delle nascite”;

i ripetuti attacchi della commissione sui diritti umani del parlamento

l’intreccio strettissimo, fin dal primo Novecento, tra antinatalismo ed i casi esemplari di Iran, Cina, India, Bangladesh, dove la povertà e l’assenza di meccanismi democratici consolidati hanno reso le donne facili vittime di sperimentazione di contraccettivi rischiosi per la salute, di sterilizzazioni di massa e aborti forzati

il presupposto delle organizzazioni dell’ONU secondo cui l’offerta di aborto e contraccezione è, in qualunque contesto, il primo elemento di emancipazione per le donne e il solo perseguito di fatto: come in Iran, dove i programmi per il controllo della fertilità hanno avuto grande successo ma le donne continuano a essere soggette all’oppressione maschile;

l’impressionante contrasto tra l’impegno antinatalista profuso dalle organizzazioni internazionali nei paesi poveri e l’invarianza nell’ultimo decennio del numero delle donne morte per parto, più di mezzo milione all’anno.

Scrive a questo proposito Eugenia Roccella:

“I dati confermano come i cosiddetti servizi alla salute riproduttiva siano rivolti moltissimo alla prevenzione e interruzione delle gravidanze indesiderate, ma pochissimo alle cure per le gravidanze desiderate. Il modo principale con cui si intende ridurre la mortalità da parto è ridurre, semplicemente, il numero dei parti, e aumentare quello degli aborti”.

E ancora, a proposito dei linguaggi adottati in questo campo da ONU ed UE:

“Ad ogni appuntamento internazionale si apre una lotta terminologica che a un osservatore estraneo potrebbe apparire incomprensibile. Ma dietro le differenze semantiche si nasconde lo scontro sui concetti. Per esempio, la scomparsa di vocaboli come madre e padre, in favore di definizioni prive di caratterizzazione sessuale, come ‘progetto parentale’ o ‘genitorialità’, e la stessa sostituzione delle parole uomo e donna con un termine neutro, ‘genere’, tendono ad annullare la differenza sessuale e la specificità dei ruoli di madre e padre.

“C’è un progetto culturale molto diffuso, e in parte inconsapevole, che mira a sganciarsi il più possibile dal diritto naturale, fondamento dei diritti umani. Se non c’è più un diritto naturale inalienabile che garantisca l’eguaglianza degli esseri umani (per esempio per quanto riguarda il diritto alla vita e alla libertà personale), tutto diventa contrattabile e relativo. Rafael Salas, ex direttore dell’UNFPA, ha sostenuto che le spaventose violazioni dei diritti umani attuate in Cina durante gli anni della politica del figlio unico non erano tali per i cinesi. Aborti forzati, abbandono e uccisione dei neonati, secondo Salas, erano metodi che ‘per le loro norme culturali non erano affatto coercitivi’. Questo è relativismo etico: ma è chiaro che si tratta di una concezione che porta alla distruzione dell’idea stessa dei diritti umani”.

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Sui contrasti tra la Chiesa cattolica e l’Unione Europea ha detto alcune parole lo scorso 21 giugno il cardinale Camillo Ruini.

Le ha dette presentando a un folto pubblico l’ultimo libro uscito in Italia a firma di Joseph Ratzinger, con la sua celebre conferenza sul cristianesimo in Europa tenuta a Subiaco il 1 aprile scorso.

Ruini ha fatto notare che l'Unione Europea “non ha praticamente potere nel campo della politica estera, ma ne vuole esercitare tantissimo nel campo etico. Varie risoluzioni del parlamento comunitario muovono nel senso di una contestazione della predicazione morale della Chiesa sulla famiglia e la vita sessuale, invadendo in modo fin troppo esteso il campo delle decisioni etiche dei singoli paesi”.

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Spagna
Riserve indiane per matrimoni etero
di Eugenia Roccella

In Spagna lo zapaterismo impazza. Messi bruscamente di fronte alla possibilità dei matrimoni omosessuali, i sindaci cattolici cominciano a provare seri imbarazzi, e a invocare il diritto all’obiezione di coscienza. Non si tratta di omofobia, ma di mantenere al matrimonio la sua forma tradizionale, salvaguardando lo spazio sociale della famiglia, minacciato da più parti. Non tutte le associazioni gay, del resto, sono concordi nella richiesta di una borghesissima legittimazione matrimoniale. In Italia, per esempio, Imma Battaglia, leader lesbica, ha preso una posizione diversa, ribadendo la differenza tra forme di regolamentazione delle unioni civili, e il matrimonio vero e proprio.

La sacralità delle nozze, nelle diverse civiltà, deriva dal riconoscimento alla famiglia di un interesse sociale, quello di garantire la riproduzione naturale, e quindi la coesione del gruppo umano. Rispettare e privilegiare la famiglia vuol dire tenere in vita la solidarietà intergenerazionale, il legame tra passato e futuro, l’idea di avere un universo ideale e materiale da tramandare ai propri figli. I bambini sono una risorsa di energia e di fiducia che si riversa su tutta la comunità: se per i genitori rappresentano la continuità del patrimonio genetico, sentimentale ed economico, per la società rappresentano un elemento vitalizzante, la rassicurante sensazione che il mondo andrà avanti.

Fare del matrimonio un qualunque contratto di convivenza, del tutto libero dalle convenzioni e senza alcuna relazione con la storia dell’uomo, vuol dire sradicare qualcosa di molto profondo, di essenziale almeno quanto la biologia, e cioè i significati e i simboli di cui è tessuta la cultura del gruppo umano. Dall’antropologia abbiamo imparato che la rete di parentela, in tutte le sue diverse forme, dà senso allo stare insieme degli uomini, al loro costituirsi in comunità, e che alla base della parentela è, naturalmente, il matrimonio. Tra i Pueblo, i Salish, gli Hopi o i Winnebago, decifrare i rapporti e le strutture di parentela è stato il primo compito di ogni studioso inviato sul campo.

Oggi gli occidentali si divertono a disfarsi del proprio bagaglio storico e simbolico, ma le tribù che un tempo definivamo “primitive” ci osservano con occhi ormai smaliziati. Sono loro, adesso, a studiarci sul campo, senza forse riuscire a interpretare le nostre nuove, stupefacenti usanze. In compenso, si confrontano con noi, e giudicano: gli indiani Navajo, che all’interno della loro enorme riserva semiautonoma tra Utah, Arizona e New Mexico, possono legiferare, hanno deciso di bandire con forza il matrimonio omosessuale dal proprio territorio.

Il Consiglio ha votato all’unanimità, riaffermando il senso dei termini “uomo” e “donna” – del resto già presenti nella legislazione esistente – nella definizione di matrimonio. Sembra puro buon senso, ma proprio attraverso questa innocua, piccola trasformazione semantica (via le parole uomo e donna, sostituite da una terminologia gender-neutral) il premier spagnolo è riuscito senza troppi sforzi ad annichilire una vecchia e salda istituzione come il matrimonio, che aveva resistito nei secoli a tutte le tempeste e le vicissitudini della storia.

Certo il brillante Zapatero non ha l’aria di un vecchio, saggio capo Navajo, dal volto intenso solcato da rughe; in ogni caso, dovendo attribuirgli un nome indiano, si propenderebbe più per “Cavallo pazzo” che per “Toro seduto”. Resta, come consolazione per chi non condivide lo snaturamento del cosiddetto “paradigma eterosessuale” nel matrimonio, l’idea di poter prendere famiglia e bagagli e trasferirsi in una riserva indiana. Lì potremo passare i nostri giorni a studiare da vicino le nuove strutture di parentela del mondo occidentale, spipettando, senza che qualche ministro salutista ce lo vieti, il nostro calumet.

eroccella@hotmail.com

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Date: 2005-07-12

On Feminism, Eugenics and "Reproductive Rights"

Interview With Journalist Eugenia Roccella

ROME, JULY 12, 2005 (Zenit.org).- "Reproductive rights" are a means to wield demographic control in poor countries and to destroy the experience of being a woman, says journalist Eugenia Roccella.

A 1970s leader of the women's liberation movement, Roccella is the author of essays on feminism and women's literature. With Lucetta Scaraffia, she has just published the book "Against Christianity: The U.N. and European Union as New Ideology," published by Piemme.

In this interview with ZENIT, Roccella talks about the anti-birth ideology of international institutions such as the United Nations and European Union.

Q: You maintain that so-called reproductive rights are a deception to foster family planning and genetically selective births. Can you explain the evolution of "reproductive rights" and how opposition to births has been transformed into eugenics?

Roccella: What must be clarified in the first place is that so-called reproductive rights are in reality rights not to reproduce oneself, and they have been made concrete in governments' control over feminine fertility by a worldwide policy of dissemination of abortion, contraception and, above all, sterilization.

It is generally believed that the adoption of these rights by international organizations has been a victory of the women's movement. But from the documents one can see that this is not so.

Historically, the right to family planning arose from the pressure of powerful international anti-birth lobbies -- for example, the Rockefeller Foundation -- helped by the West's desire to exercise demographic control over the Third World.

Suffice it to consult the excellent documentation in the book provided by Assuntina Morresi, which demonstrates how much associations of a eugenic vein have influenced U.N. policies, through NGOs such as, for example, the IPPF [International Planned Parenthood Foundation].
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Just some added info - the first IPPF office was housed in the offices of the Eugenics Society. That was in 1952.

In 1977, IPPF was STILL a member of the Eugenics Society. Only then did they begin to feel that it would be best to distance the organization from at least the visible body of the Eugenics movement.

Of course, in reality, the IPPF is still in the eugenics business. Don't believe that? click here. Note the native woman next to the "Making Abortion Safe" link.
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Anti-birth attitudes and eugenics have been closely intertwined from the beginning: The idea of building a better world through genetic selection was very widespread at the start of the 20th century, and enjoyed great credibility even in learned circles. The objective was to prevent the reproduction of human beings regarded as second-class, namely, genetically imperfect, even through coercion.

The adoption of eugenic theories by the Nazi regime discredited the theories and elicited international condemnation. But associations born for this purpose -- among them, precisely, the IPPF -- have survived, changing their language and using, in an astute and careless way after the '70s, some slogans of the women's movement, such as "free choice."

In reality, international conferences on population, that is, on demographic control, have always preceded conferences on women, and have prepared their code words. For example, it was at the Cairo Conference of 1994 on population and development that the old "family planning" was replaced by the new definition of "reproductive rights."

The following year, the definition was uncritically accepted and appropriated by the Women's Conference in Beijing, without changing a comma.

Feminism has been, paradoxically, an easy mask to implement control practices that are often savage and violent on women's bodies, especially in Third World countries.

In the book, among other things, we illustrate some cases by way of example, such as the anti-natal policies adopted in China, Iran, India and Bangladesh, where poverty and the absence of consolidated democratic mechanisms have made women easy victims of experimentation, contraceptives dangerous to health, massive sterilizations and forced abortions.

Q: It is a widespread opinion that the feminist movement has contributed to the obtaining of women's rights. You maintain, instead, that there are ambiguities and mistakes. Could you explain what these are?

Roccella: Feminism is a galaxy of different movements and philosophies which is absolutely not homogenous.

International organizations have adopted a rigidly emancipating version which tries to equate men and women as much as possible. This is translated, for example, in the idea -- never explicitly stated but always present -- that maternity is an impediment to women's fulfillment, and not a central element of the gender's identity which must be valued and protected.

Thus, in the U.N. and the European Union an institutional feminism has been created based altogether on individual rights and parity, which has chosen reproductive rights as its own qualifying objective.

There is, instead, a feminine philosophy of an opposite sign -- the so-called philosophy of difference -- which maintains that the myth of equality prevents women from thinking of themselves autonomously, and that the sexual difference, rooted in the body, is not only a biological fact, but something that encompasses the whole experience of being woman. With this feminism, the Church has had an open dialogue for a long time; suffice it to read Pope Wojtyla's letter on the feminine genius, and especially the most recent one addressed to bishops and signed by the then Cardinal Ratzinger.

But at present, at the international level, it is the feminism "of rights" which has prevailed, imposing reproductive rights as a flag that must be flown always and everywhere. Instead, women's priorities, in the various geographic areas, are different: In Africa, there is the urgent and dramatic problem of containing birth and postnatal mortality. There is also the problem of sexually transmitted diseases and malnutrition.

In the Muslim theocracies the objective for women is legislative equality and liberation from the oppressive control over public behavior -- for example, the use of the burkha. In Europe, the problems are altogether different, and so on. The U.N. resolutions stem from the assumption that the offers of abortion and contraception are, in any context, elements of emancipation, including empowerment, that is, the enhancement of women's power.

But the concrete cases analyzed in the book show that this is not the case. In Iran, for example, programs for the dissemination of control of fertility have been very successful, but women continue to be regarded as second-class citizens, subject to masculine authority.

Q: On the great topics regarding the defense of life and of the natural family, the Holy See has often confronted the international organizations, particularly the United Nations and the European Union. You entitled one of the chapters in the book "Europe Against the Vatican." Could you explain the essence of the controversy?

Roccella: The prevailing cultural plan in Europe is a secularist extremism that regards religions as potential bearers of fundamentalist demands.

The European Union, however, adopts many precautions, both political as well as verbal, in the face of the Muslim world. They are precautions that would be comprehensible if they did not create a visible imbalance vis-à-vis the Vatican, which instead is attacked with perfect serenity every time it is possible.

The result is that Catholicism appears as the bitterest enemy of woman in the international realm, because it is opposed to the ideology of reproductive rights and demographic control.

This cultural operation is resolved in a sort of suicide of identity, as has already occurred with the mention of the Christian roots in the European Constitution. ... It must not be forgotten that, from the beginning, Christianity has had an extraordinary idea of woman, and it is no accident if the fight for sexual equality has developed essentially in the Christian area.

Among all the religions, the Christian religion is the only one, for example, whose rite of initiation, baptism, is open to both sexes. Within the Catholic realm there is a strong feminist philosophy, and the two last papacies have given great cultural dignity to this philosophy.

But all this is silenced by a plan that favors the anti-religious element. The EU, even if it maintained the same policy, could modulate in a different way its attitude to the different religious creeds, fostering motives for agreement.

For example, it would be easy to find instances of unity with the Holy See on the protection of maternity, on international policies against maternal and infant mortality and on feminine schooling, or even on the recognition of women's political and economic rights.

Instead, preference is given to putting all religions in the same bag and pointing to the Vatican as the enemy par excellence of feminine emancipation.

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Da Libero, 7 luglio 2006

Nozze, figli, sesso.
Il femminismo ha ucciso le donne

Esce negli Usa una rivisitazione politicamente scorretta sui danni della rivoluzione sessuale

di Guglielmo Piombini


Il nuovo volume della fortunata serie di guide politicamente scorrette pubblicate dalla Regnery di Washington, The Politically Incorrect Guide to Women, Sex, and Feminism (pp. 221, $ 19,95) di Carrie L. Lukas, sta facendo scendere sul piede di guerra le attardate, ma sempre rumorose, vetero-femministe. L’autrice, trentaduenne opinionista del “National Review Online”, ritiene infatti che i movimenti per i diritti delle donne siano rimasti vittime del successo dei propri predecessori. Oggi le donne, scrive la Lukas, godono di una completa libertà di scelta riguardo l’istruzione, il lavoro o la famiglia, ma le femministe, invece di celebrare questi progressi, continuano a presentare le donne come vittime della discriminazione e a pretendere dallo Stato trattamenti privilegiati.

L'attacco alla vulgata femminista

L’obiettivo della Lukas è di aiutare le donne ad affrontare consapevolmente le scelte più importanti della propria vita, offrendo loro un’informazione più completa di quella diffusa dalla vulgata femminista politicamente corretta. Molte giovani ragazze, ad esempio, sono state indotte a credere che l’età per avere figli possa essere rinviata a lungo senza conseguenze. In realtà la fecondità femminile cala notevolmente dopo i trent’anni, ma quasi nove donne su dieci sovrastimano di cinque-dieci anni l’età in cui la fertilità inizia a diminuire. Il risultato è che molte donne si accorgono troppo tardi di non poter più avere il numero di figli desiderato. Un sondaggio svolto tra le quarantenni americane senza figli ha rivelato che solo per un quarto di loro si è trattata di una decisione intenzionale, mentre per tutte le altre la scelta ideale sarebbe stata di uno, due o addirittura tre figli.

Tra natura e cultura

Molte ricerche scientifiche riportate dalla Lukas, inoltre, dimostrano che gran parte delle differenze di comportamento tra uomo e donna non sono “socialmente costruite”, ma innate e biologiche. Per questo motivo le rivendicazioni femministe che cercano di forzare la natura femminile in ruoli non propri rischiano di creare infelicità nelle donne. La rivoluzione sessuale, ad esempio, ha peggiorato la condizione femminile, perché le donne hanno maggiori difficoltà a separare il sesso dall’amore, e spesso continuano a rammaricarsi, anche dopo anni, delle passate esperienze di sesso occasionale. Gli uomini, infatti, quando vogliono instaurare una relazione seria e duratura continuano a preferire le donne caste e fedeli. Il corteggiamento tradizionale osteggiato dalle femministe assolveva un’importante funzione, perché permetteva all’uomo e alla donna di scoprire le reciproche intenzioni. L’uomo, prendendo l’iniziativa del corteggiamento e sopportandone tutti i costi, dimostrava alla donna il proprio sincero interesse e di essere quindi disposto ad investire molte risorse nella relazione; la donna, facendo la difficile e non cedendo se non dopo una corte assidua, rassicurava l’uomo che, nella loro futura relazione, sarebbe stato quasi impossibile per altri uomini conquistarla. La danza del corteggiamento era dunque, in un linguaggio cifrato, una tacita promessa di fedeltà, cioè la miglior base per un matrimonio felice.

Le polemiche anti-matrimonio

La polemica delle femministe contro il matrimonio, accusato di essere un’istituzione patriarcale che intrappola la donna per tutta la vita, viene contraddetta da numerosi dati empirici, che dimostrano come le persone sposate godano di maggior ricchezza finanziaria, salute fisica, felicità mentale e persino di una vita sessuale più appagante rispetto a quelle single, divorziate, separate o che coabitano. Anche i figli cresciuti all’interno di una famiglia stabilmente sposata hanno meno problemi con la scuola, con la giustizia, con il sesso prematuro e con il consumo di droghe o alcolici. Le ricerche dimostrano inoltre che il divorzio raramente riesce a migliorare la situazione dei coniugi, e che viene sempre vissuto come un trauma dai figli.

Smontati i miti del femminismo

La Lukas demolisce anche l’idea secondo cui le donne guadagnano meno degli uomini perché discriminate nel mondo del lavoro. Se veramente le donne, a parità di rendimento, potessero essere pagate meno degli uomini, allora gli imprenditori che le assumessero otterrebbero degli enormi vantaggi competitivi. Il libero mercato, quindi, punirebbe immediatamente il comportamento economicamente irrazionale dei datori di lavoro “maschilisti”. In verità le donne spesso preferiscono non svolgere lavori che, anche se meglio pagati, comportano frequenti e prolungati spostamenti, orari non flessibili, dure fatiche oppure rischi elevati. Non è un caso che gli uomini siano vittime del 92 per cento degli infortuni mortali sul lavoro. I movimenti femministi, accusa infine la Lukas, sono diventati dei gruppi di pressione impegnati solo a chiedere sussidi e privilegi alla classe politica. Oggi negli Stati Uniti molte donne single con figli fanno a meno del coniuge e vivono con gli aiuti elargiti dal welfare state. Volendo liberare le donne dalla loro “subordinazione” al marito, le femministe hanno finito così per renderle dipendenti dallo “Zio Sam”. Ma la dipendenza dal governo è cosa ben diversa dall’indipendenza personale.